Quando si avvicina l’undici marzo, data di fondazione (1635) del Carmelo di Parma e per noi giorno di gran festa, ci piace raccontare qualcosa della nostra storia. Per esempio del rapporto, molto articolato e non sempre facile, che il nostro monastero ha avuto con le istituzioni. L’inizio è roseo; la famiglia Farnese, regnante al tempo della fondazione, si adoperò caldamente perché in Parma venisse fondato un monastero di Teresiane, come allora venivamo spesso chiamate. E per giunta ci «offrì» una sua illustre figlia, la principessa Caterina, che fu Scalza e morì in concetto di santità.
Questo idillio iniziale però fu anche una disavventura, perché il popolo era persuaso che fossimo mantenute di peso dai Farnese e quindi dirottava altrove le sue offerte… Ma dopo tutto ci eravamo impegnate alla povertà con voto solenne: niente mugugni dunque se le circostanze ce la facevano sperimentare.
Con il passaggio di consegne dai Farnese ai Borboni non aumentarono le donazioni e non diminuì il rispetto. D’altronde non si vede perché il potere politico dovesse prendersela con delle povere donnicciuole – la definizione è di Santa Teresa – che passavano l’esistenza nel silenzio, nel nascondimento e nella preghiera. Senza mai lanciarsi in proclami politici e sociali. Trascorremmo secoli tranquilli: per perseguitare le povere donnicciole non basta che uno stato non possieda il senso della religione; occorre che non possieda neppure quello del ridicolo. Ma la storia è imprevedibile, ed ecco arrivare Napoleone che dichiarò guerra al nostro monastero – manco fossimo state la flotta inglese – e lo soppresse, insieme con molti altri. Niente paura. Fummo ospitate presso un monastero che per la sua portata storica non poteva essere soppresso: le Benedettine di Sant’Alessandro, e così riuscimmo a non disperderci. Il manzoniano uom fatale finì a Sant’Elena e un guizzo capriccioso della storia inviò a Parma proprio sua moglie Maria Luigia d’Asburgo. Che fece a ritroso il percorso del marito, restituendoci spazio fisico e identità sociale. Il che ci consente di associarci all’affetto di cui ancora oggi Parma circonda la buona duchessa. Una nuova, breve parentesi sotto il governo borbonico, ed ecco arrivare l’annessione al Regno d’Italia. Cui fece seguito il decreto di soppressione. Volontà di imitare i laicissimi cugini d’oltralpe? O più semplicemente necessità di incamerare? Neanche stavolta le monache si persero d’animo. Si trasferirono in un edifico così malridotto che non poteva far gola a nessuno, e alla proibizione di accettare novizie risposero definendo inservienti le giovani che continuavano ad entrare in monastero. I funzionari del governo credettero (o finsero di credere) alle monache, e il nostro Carmelo continuò a vivere e prosperare. Nel novecento infine sperimentò i disagi delle guerre ma anche i benefici del nuovo welfare: pensioni e assistenza sanitaria, qualunque fosse il colore al potere. Sarebbe ingiusto non ricordarlo.
E adesso, come Renzo alla fine dei Promessi Sposi, raccogliamo gli insegnamenti scaturiti da tante vicissitudini. Per esempio abbiamo imparato che i governanti non sono obbligatoriamente cattivi, come una retorica qualunquista vuole far credere; che anche una legge ingiusta può essere temperata dall’umanità di chi la fa applicare; che la vocazione del monaco è prima di tutto quella di stare con Dio, e che neppure la più iniqua delle istituzioni la può ostacolare: non ci sono riusciti gulag e lager, figuriamoci se ci riusciva il ministro Urbano Rattazzi; che in ogni caso anche i «potenti» (che peraltro non avrebbero alcun potere se non fosse dato dall’alto, come ben precisa Gesù) sono – senza nulla togliere alle loro gravissime responsabilità personali – misteriosi strumenti nelle mani di Dio, Signore della storia; che le loro decisioni, anche le più infelici, rientrano in un piano di salvezza, e che essi, volenti o nolenti, contribuiscono a realizzare il disegno divino. Che dire? Auguriamo loro di essere volenti.