“Giovanni della Croce è un innamorato di Dio. Trattava familiarmente con lui e parlava costantemente con lui. Lo portava nel cuore e sulle labbra, perché costituiva il suo vero tesoro, il suo mondo più reale. Prima di proclamare e cantare il mistero di Dio, è il suo testimone; per questo parla di lui con passione e con doti di persuasione non comuni: «Parlava in modo tale di Dio e dei misteri della nostra fede, come se li vedesse con gli occhi corporali» (dai Processi di Canonizzazione). Grazie al dono della fede, i contenuti del mistero portano a formare per il credente un mondo vivo e reale. Il testimone annuncia ciò che ha visto e udito, ciò che ha contemplato, a imitazione dei profeti e degli apostoli (cf. 1 Gv 1,1-2)”.  Giovanni Paolo II Lettera apostolica “Maestro nella fede” del 14/12/1991 in occasione del quarto centenario della morte di S. Giovanni della Croce.

L’infanzia e la giovinezza

Giovanni de Yepes nacque a Fontiveros, grossa borgata nella provincia di Avila (Vecchia Castiglia, Spagna) in un giorno non conosciuto del 1542. I genitori erano operai tessitori. Il padre Gonzalo, di origine nobile, era stato diseredato dalla famiglia a causa del suo matrimonio con la popolana Caterina Alvarez. Poco tempo dopo la nascita del terzogenito Giovanni, Gonzalo morì, lasciando la famiglia nella più grande povertà. La madre con i tre figli (il secondogenito Luigi morirà poco tempo dopo) emigrò alla ricerca di lavoro e si stabilì a Medina del Campo, centro commerciale della Castiglia. Giovanni venne accolto nell’orfanotrofio della città, il “Collegio della Dottrina”, dove, in cambio dell’istruzione e del mantenimento, lo impiegarono come “questuante” in città. Il fisico minuto e debole e la poca propensione per i lavori manuali non li consentivano, infatti, di dedicarsi a occupazioni più onerose. Giovanni stesso racconterà in seguito un episodio molto importante della sua fanciullezza: un giorno, trovandosi a giocare con alcuni coetanei vicino ad uno stagno, nei dintorni di Medina, perse l’equilibrio e finì a capofitto nell’acqua melmosa. Toccato il fondo, cominciò a dimenarsi nel tentativo di risalire, quando “vide una bellissima signora che gli porgeva la mano”. Temendo di insudiciarla, il bambino non l’afferrò. Grazie a Dio un contadino, allarmato dalle grida dei compagni di gioco, accorse e lo estrasse lui dallo stagno con un gancio. Giovanni identificò subito la bella signora con la Madonna: da allora e per tutta la vita nutrì sempre un affetto particolare verso di Lei.  Da giovane prestò servizio presso un ospedale di Medina del Campo, detto “de las bubas” perché destinato a curare i poveri affetti da mali contagiosi. Il direttore dell’ospedale gli diede l’opportunità di frequentare la scuola dei Padri gesuiti e, in quattro anni, poté portare a compimento i suoi studi umanistici, pur continuando a lavorare. Grande devoto della Madonna, Giovanni si sentì presto attratto dalla vita religiosa e scelse di entrare nel convento di S. Anna dei Carmelitani in Medina del Campo, proprio perché questi frati professavano in città la maggiore devozione alla Mamma di Gesù, Nostra Signora del Monte Carmelo.

Giovane religioso

Il ventunenne Giovanni iniziò l’anno di noviziato vestendo l’abito marrone, lo scapolare e il bianco mantello dei frati carmelitani e aggiungendo al nome un “cognome” religioso: di S. Mattia. I frati seguivano la Regola del Carmelo scritta nel 1207 da S. Alberto Avogadro, patriarca di Gerusalemme, che, però, era stata mitigata da Papa Eugenio IV nel 1432, soprattutto per quanto riguardava il digiuno e il silenzio. Fra Giovanni chiese di poter seguire la Regola primitiva, senza mitigazioni, e gli venne concesso. Dopo l’anno di noviziato fu ammesso alla professione dei voti di obbedienza, castità e povertà fino alla morte, quindi venne inviato a studiare nella prestigiosa università “Alma Mater” di Salamanca. In una data per noi sconosciuta fra Giovanni venne consacrato sacerdote. Negli anni dell’università iniziò a nascere nel suo cuore un desiderio di maggiore silenzio e solitudine e cominciò a coltivare il sogno di diventare monaco certosino. Il Signore però aveva altri disegni su di lui…

La riforma dell’ordine

Il 24 agosto 1562 S. Teresa d’Avila aveva fondato nella sua città un monastero di Carmelitane, dette “scalze”, cioè “riformate”, dedicato a S. Giuseppe. Il desiderio era quello di ritornare a seguire la Regola di S. Alberto in tutta la sua interezza, e per questo la Santa aveva organizzato la vita delle monache con una più stretta clausura, in modo da favorire la solitudine e il silenzio, cioè l’ambiente più favorevole ad un’intensa ed impegnata vita di preghiera per il mondo e per la Chiesa. Il Preposito generale dell’Ordine, Gianbattista Rossi, aveva approvato tale fondazione e le aveva dato l’autorizzazione per iniziare anche la Riforma dei frati. Nel 1567 S. Teresa si recò a Medina del Campo per seguire i lavori della fondazione del secondo monastero della Riforma e qui incontrò P. Giovanni di S. Mattia: “Avendogli parlato, rimasi molto soddisfatta”, scrisse la santa nel libro delle Fondazioni (3,17), “Seppi che voleva farsi certosino, ma io gli esposi i miei disegni e lo pregai insistentemente di attendere fino a quando il Signore non ci avesse provveduto di un convento. Gli feci inoltre osservare il gran bene che ne sarebbe venuto, e come Dio se ne sarebbe servito se, bramando di condurre vita più perfetta, l’avesse fatto nel suo stesso Ordine. Egli mi promise di aspettare, purché non si andasse troppo per le lunghe”. L’anno seguente S. Teresa lo prese con sé come accompagnatore nella fondazione del quarto monastero della Riforma, quello di Valladolid, e colse così l’occasione per fargli conoscere dal vivo lo stile di vita delle “Scalze”. Nel monastero non vi era ancora la clausura perché vi lavorano gli operai: P. Giovanni poté così partecipare a tutti gli atti comuni delle monache, conoscendo da vicino la loro vita e avendo la possibilità di leggere le Costituzioni redatte dalla Santa secondo la Regola primitiva. Dopo quest’esperienza diede inizio alla Riforma, stabilendosi, nella più grande austerità, in una poverissima casetta a Duruelo, nella campagna di Avila, insieme ad un altro frate dell’Ordine, il P. Antonio de Heredia. Qui i due Padri rinnovarono i voti, s’impegnarono ad osservare la Regola primitiva e cambiarono il loro cognome religioso: Giovanni di S. Mattia divenne così Giovanni della Croce.

Padre del Carmelo riformato

La S. Madre Teresa ebbe occasione, due mesi dopo la fondazione, di far visita a Duruelo e rimase impressionata dalla povertà e dall’austerità di vita dei primi Scalzi. P. Giovanni ebbe il compito più degli altri di definire a parole e coi fatti il carisma carmelitano delle origini interpretato da S. Teresa e adattato alla vita degli Scalzi, i quali hanno, per esplicita volontà della Madre, un apostolato sacerdotale: predicazione, amministrazione dei sacramenti, direzione spirituale ecc. Dopo 18 mesi, gli Scalzi si trasferirono a Mancera, un villaggio vicino, e, da qui, la Riforma si espandette in più punti della Spagna.  Il 6 ottobre 1571 S. Teresa, per obbedire alla volontà del commissario apostolico, prese possesso dell’ufficio di priora nel suo monastero di origine, quello dell’Incarnazione di Avila. La comunità era formata da 180 religiose, per la maggioranza a lei ostili. La Madre pensò di procurarsi dei collaboratori dotti e santi che l’aiutassero nell’opera di riforma e volle S. Giovanni della Croce come confessore del monastero. Dopo un anno ella scriverà: “In questa casa il Signore ha operato molte grazie…da vari giorni confessa uno Scalzo che è un vero santo; ha fatto un gran bene” (Lettera dell’11/2/1578).

In prigione a Toledo

Il dissidio tra i Carmelitani e i riformati “Scalzi” si fece a quest’epoca sempre più aspro. Nella notte del 3 dicembre 1577 un drappello di frati carmelitani prelevò S. Giovanni da Avila e lo rinchiuse nella prigione del convento di Toledo, con l’accusa di ribellione. La prigione era uno stanzino di quattro metri quadri, nel quale P. Giovanni rimase rinchiuso per nove mesi, soffrendo freddo, fame, caldo, maltrattamenti e avendo la proibizione di celebrare e di ricevere l’Eucaristia. Per lui è notte, ma nella sua anima fiorisce sempre di più l’amore a Cristo Crocifisso. A questo periodo risale la composizione (non ancora scritta, ma intima) delle sue più grandi e appassionate poesie: “La Notte oscura”, il “Cantico spirituale”, “La fonte”…Probabilmente nella notte dell’Assunta del 1578, S. Giovanni della Croce riuscì a fuggire calandosi dalla finestra con una corda fatta di strisce di due coperte e si rifugiò nel monastero delle Carmelitane di Toledo.

Maestro di vita spirituale

Il 22 giugno 1580 i Carmelitani Scalzi si costituirono quale provincia autonoma rispetto a Calzati e finalmente le controversie tra i due rami del Carmelo cessarono. S. Giovanni della Croce venne eletto più volte per incarichi d’importanza: priore di diversi conventi, Definitore provinciale e Vicario provinciale in Andalusia, primo Definitore e terzo consultore della Congregazione degli Scalzi. Egli sapeva destreggiarsi non solo nello scrivere libri di alta teologia mistica, ma anche nello stipulare contratti di compra-vendita, nel restaurare locali e nel canalizzare l’acqua, prestandosi all’occorrenza perfino come manovale e contadino. Divenne un ricercato direttore spirituale non solo di religiosi, novizi e monache di clausura, ma anche di laici (uomini e donne). A delle donne S. Giovanni dedicò le sue opere maggiori: la Salita-Notte è indirizzata ai frati e alle monache carmelitane, Il Cantico Spirituale alla Madre Anna di Gesù, la Fiamma viva d’amore alla “molto pia e nobile signora” Anna de Peñalosa. Ben 28 lettere sulle 33 conservate sono indirizzate a donne.  San Giovanni della Croce è spesso definito, a torto, come il “dottore del nulla e della notte”, a causa della radicalità della sua dottrina. Egli insegna, però, semplicemente, a seguire Cristo, eliminando progressivamente dalla nostra vita ciò che può essere di ostacolo all’amicizia con Lui, per arrivare il più velocemente possibile a godere la dolce e luminosa compagnia del Tutto, che è Dio.  Alla strofa 35,1 della sua opera “Cantico spirituale” S. Giovanni della Croce così si esprime:  “Quando un’anima giunge a conformarsi nella quiete dell’unico e solitario amore dello Sposo (Dio), si stabilisce tanto amorosamente in Dio e Dio in lei, che non ha più bisogno di altri mezzi e maestri che la guidino a Lui, poiché Egli è ormai sua guida e sua luce, compiendo in lei quanto promette Osea (2,14): La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Con tali parole vuol far capire che nella solitudine Egli si comunica e unisce all’anima, poiché parlare al cuore vuol dire renderle soddisfatto il cuore, il quale non si appaga con cosa inferiore a Dio”.

“Soffrire per te!”

Francesco de Yepes, fratello di S. Giovanni, dopo la sua morte raccontò un episodio che aveva appreso da lui stesso. Mentre era priore a Segovia, aveva esposto nella chiesa del convento un quadro di Gesù Crocifisso. Gli parve allora di sentire una voce che gli chiedeva: “Chiedimi ciò che vuoi per quello che hai fatto”. Giovanni avrebbe risposto: “Signore, soffrire ed essere disprezzato per amor tuo”. Nel giugno del 1591, a Madrid, i superiori e i delegati del Carmelo teresiano si radunarono per rinnovare le cariche: in quel capitolo generale S. Giovanni non venne eletto a nessun ufficio di superiore. Venne inviato invece nel convento di La Peñuela, in Andalusia. A causa di una strana infezione alla gamba destra, fu poi costretto a trasferirsi a quello di Úbeda, dove vi era un priore che, per incomprensioni passate, gli era avverso. S. Giovanni sopportò con amore e abbandono la freddezza e le scarse cure che il superiore aveva per la sua salute molto compromessa. Con la sua umiltà e la sua obbedienza finì per convertire il cuore del priore, che prima della morte del santo, ammise le sue colpe e gli chiese perdono. A mezzanotte del 14 dicembre 1591 la campana del convento chiamava i frati a recarsi alla preghiera del Mattutino. Giovanni sorrise ai confratelli che si stavano allontanando, esclamando: “Io vado a dirlo in Cielo!”. Poco dopo il Padre del Carmelo riformato morì a quarantanove anni d’età. “Fiamma che consuma e non dà pena”: così nella strofa 39 del “Cantico spirituale” S. Giovanni della Croce descrive il Paradiso, dove l’uomo, ormai trasformato e reso, per misericordia di Dio, simile a Lui, è avvolto e partecipa all’Amore che le Persone divine si scambiano vicendevolmente. Quella Fiamma d’Amore che, in Cielo come in terra, è una Persona, lo Spirito Santo, non è più molesta: ormai l’uomo è divenuto tutto Amore, come Dio, che è Amore.

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San Giovanni della Croce