Nell’estate del 1794 il tetro carcere parigino della Conciergerie traboccava di sacerdoti, religiosi e suore. In comune, l’accusa e la sentenza: quest’ultima, va da sé, aveva il triste profilo della ghigliottina, mentre l’accusa era quella di essere nemici della rivoluzione. Un’accusa nella quale tutto faceva brodo, dalla fedeltà all’abito religioso alla celebrazione della Messa, fino alle colpe più surreali, come quella di avere praticato il culto dei Sacri Cuori di Gesù e Maria: chissà, forse un culto non abbastanza democratico per il clima di égalité che allora imperava. Fatto sta che questa fu l’accusa che costò la vita alle sedici carmelitane scalze del monastero di Compiègne, che nella Conciergerie percorsero il loro ultimo tratto di strada prima di essere ghigliottinate. Calme, serene, perfino di buon umore, le sedici monache – già da tempo preparate in pectore al martirio – diffondevano intorno a sé luce e pace. E una di esse si rese protagonista di un episodio che sembra quasi una rivincita sull’orrore. Mentre dalle finestrelle del carcere giungevano le note del tormentone estivo di allora (quella trascinante Marseillaise che è tuttora l’inno nazionale) una delle religiose ne riscrisse il testo ribaltandone il significato: da una esaltazione cruenta della rivoluzione a una esaltazione gioiosa del martirio, dove l’unico sangue che scorre è il proprio. Il celeberrimo Allons enfants de la patrie diventa Livrons nos cœurs à l’allégresse (Abbandoniamo i nostri cuori alla gioia), mentre il verso successivo – le jour de gloire est arrivé – rimane intatto, essendo già pronto per l’uso. E così lungo tutte le strofe della composizione, le parole modificate dalla nostra antica consorella si alternavano a quelle originali, purché suscettibili di interpretazione a lo divino.

A lo divino, appunto. Un’espressione non a caso spagnola, perché fiorita nel contesto della riforma carmelitana e più in generale nel clima fervente del siglo de oro, il periodo d’oro della Spagna. La diffusione della letteratura e insieme della fede favorirono la nascita di questa bella consuetudine: prendere un testo profano e, magari con qualche ritocco, volver, cioè volgere il significato in senso mistico. Un gioco letterario del quale non apprezziamo forse la bellezza. Perché a ben pensarci si tratta della capacità di fare entrare, con naturalezza, la fede nella vita ordinaria e viceversa. Il che non è piccola cosa. E difatti i maestri di quest’arte furono i figli del Carmelo, l’ordine che tra le sue file vanta San Giovanni della Croce, mistico e lirico per eccellenza. Molte delle sue poesie – e questo vale anche per le composizioni di Santa Teresa – sono precedute da una piccola annotazione che indica la melodia «profana» sulla quale vanno cantate. Un’abitudine rimasta viva nella tradizione carmelitana, anche al di fuori della Spagna. Non saranno più composizioni griffate – ricordiamo che Giovanni e Teresa sono due grandissimi anche nella storia della letteratura – e magari faranno frequente ricorso alla rima facile cuore/amore/fiore, ma il gioioso fervore e la bella interazione fra vita e fede sono gli stessi. Un’abitudine presente anche nel nostro monastero, rispolverata in occasione delle feste, come quando, ad esempio, sull’aria di Azzurro abbiamo cantato Cerco il Signore tutto l’anno

E le nostre monache di Compiègne? Le abbiamo lasciate nel buio della Conciergerie, mentre stanno lucidamente offrendo le loro vite perché la pace ritorni nell’ amata Francia. Il giorno dopo, 17 luglio, le aspetta la ghigliottina. Il 28 luglio il gotha del Terrore viene a sua volta – e letteralmente – decapitato, e il sangue cessa di scorrere nelle piazze parigine, mentre le sedici monache muovevano i loro primi passi nell’eternità: uguali nel martirio e libere di vivere la comunione fraterna nella visione beatifica. Uguaglianza, libertà, fraternità… Non sono le parole-simbolo della rivoluzione francese? Volver a lo divino anche per loro.

Volver a lo divino: una bella e antica tradizione carmelitana