Una scena degna di quel genio che è Dante: Lucifero, dopo la ribellione a Dio, precipita sulla terra, ma quest’ultima si ritrae inorridita e per fuggir lui lasciò qui loco vòto, (Inf. XXXIV, 125) creando così l’immensa voragine nella quale si colloca il doloroso regno dei dannati. È il prologo di una storia drammatica, quella della relazione tra il creato ed il peccato, che gli si oppone con il suo seme di morte e riesce, in parte, a stravolgerlo. Già nei primi capitoli della Genesi, tra le conseguenze del peccato originale è menzionata la rottura del rapporto felice con la terra, che spine e cardi produrrà per te e, per offrire prodotti commestibili, esigerà il sudore del volto. Il mistero della partecipazione del creato prosegue nel Vangelo: se l’inizio della vita pubblica di Gesù è preceduto dal lungo ritiro nel deserto, con gli animali ritornati alla pax originalis, e il suo svolgimento è punteggiato dall’obbedienza totale delle forze naturali, la sua dolorosa fine è tutta accompagnata da un succedersi di eventi cupi. I Vangeli li mettono in stupito risalto: il buio che scende su tutta la terra, il terremoto che terrorizza gli astanti, i corpi che escono dalle tombe, le pietre che, alla pari del velo del tempio, si squarciano in due. La liturgia siro-maronita riveste di poesia questi eventi: La terra è scossa. L’atmosfera cambia il suo colore e diventa nera… Il giorno fugge, e la notte domina a mezzogiorno. Le pietre scoppiano di timore. Le rocce si spezzano per il fremito. Il cielo è meravigliato. L’esercito degli angeli è stupito […] L’universo è vestito di tristezza, la luce è diventata tenebre e il buio ha vestito la terra. Sì, possiamo dire che questi stravolgimenti stanno a simboleggiare la tragica grandiosità del momento; ma dobbiamo anche aggiungere che in queste «reazioni» c’è qualcosa di più di un fatto simbolico. C’è l’orrore quasi ontologico del creato che rimane come ferito e offeso dal peccato in genere, e in particolare da quel peccato sommo che è la condanna a morte di Dio. Il creato, sia pur in modo inconsapevole, partecipa dell’Essere divino: se non altro, perché tutto ciò che esiste è un frammento del pensiero di Dio e se Dio avesse odiato qualcosa, non l’avrebbe neppure creata (cfr. Sap 11, 24). E vi partecipa con piena e docile obbedienza, con la sintonia massima che la sua natura gli consente. Ecco perché non può rimanere indifferente alla trasgressione dell’uomo, l’unica creatura che è stata voluta a immagine e somiglianza di Dio e che proprio per questo ha la terribile facoltà di offenderlo, e per giunta attraverso un dono: quello del libero arbitrio. Il peccato, nella bellezza armoniosa dell’universo, ha una bruttezza devastante, che ferisce insieme il Corpo fisico di Cristo, il suo Corpo mistico che è la Chiesa (e, in senso lato, l’intera umanità), e il suo Corpo cosmico che è il creato.

È in questa luce che va considerata l’ecologia. Non una assolutizzazione della natura che sottintende spesso un acido disprezzo per l’uomo; ma una visione intensamente religiosa dell’universo, in cui l’uomo è posto come collaboratore di Dio nella creazione: sia perché trasformi la materia, già bella in sé, in una ulteriore bellezza (un esempio per tutti: le cattedrali medievali); sia perché custodisca con amore e rispetto i tesori di cui Dio l’ha fatto signore e insieme servo. Allora il cuore del problema non sta tanto nella raccolta differenziata – che pure va effettuata con cura attenta – ma, molto più radicalmente, sta nella sintonia con Dio, origine del creato e autore delle sue leggi. E dunque il primo e più grave inquinamento è il peccato, compreso quello consumato nel segreto della propria anima. Parimenti, il proposito di fuggire il male con orrore (Rm 12, 9) non solo porta tra le conseguenze anche l’attenzione ai consumi e agli sprechi, ma, prima ancora, il ripristino – almeno parziale – del sogno iniziale di Dio, quello di una creazione che rifletta la sua stessa bellezza e bontà.



Il miglior progetto ecologico? Fuggire il peccato.