Le Panthéon de Paris – ma bisognerebbe sentirlo pronunciato da una guida turistica francese per coglierne tutta la pomposa solennità – è uno dei più celebri monumenti della capitale: parigino in tutto, compresa la frequenza con la quale ha cambiato bandiera nel corso della storia. Nasce nel 1758 come chiesa dedicata a Santa Geneviève (che in italiano sarebbe Genoveffa: tutti d’accordo che è meglio conservare la lingua originale) e viene portato a termine proprio quando scoppia la rivoluzione francese. Che lo trasforma prontamente in mausoleo laico, almeno fino al ritorno della monarchia che lo restituisce al culto (1821), salvo cambiare idea nel 1830. Di nuovo chiesa nel 1851, è diventato definitivamente – avverbio per il quale non metteremo la mano sul fuoco – mausoleo laico nel 1885. In questo bailamme di cambiamenti, brilla come un piccolo miracolo la presenza costante di Santa Geneviève, che è riuscita ad evitare lo sfratto laico e che, attraverso le grandi tele riportate su muro del pittore simbolista Puvis de Chavannes, ci racconta la sua eccezionale, intensa e santa vita. A sette anni già mostra l’intenzione di donarsi tutta a Dio: cosa che farà ufficialmente a vent’anni, associandosi a un gruppo femminile che vive la consacrazione religiosa pur continuando ad abitare in famiglia. Non ha ancora trent’anni quando mostra di che pasta è fatta: nel 451, mentre il terribile Attila sta marciando su Parigi, la giovane suggerisce ai cittadini di non fuggire. Un consiglio così temerario che per poco non viene linciata. Non si scompone: Che gli uomini fuggano, se vogliono e se non sono più capaci di battersi. Noi donne pregheremo Iddio così tanto che ascolterà le nostre suppliche. Alla fine i parigini recalcitranti rimangono in città, e Attila – che già li immaginava in affannosa fuga – rimane così spiazzato che cambia programma, va ad Orléans, e vi rimedia una sonora sconfitta. Geneviève, già stimatissima prima, diventa allora una icona vivente di santità e autorevolezza, quasi identificandosi con la città, di cui sarà un giorno – ça va sans dire – la patrona. I miracoli le sbocciano tra le mani. Le iniziative sociali sono spettacolari, come la grande «crociera» lungo la Senna, con undici battelli al seguito che distribuiscono cibo alle popolazioni sfinite dalle invasioni e dalle guerre. A corte la sua parola è ritenuta illuminata e profetica. Vescovi e re l’amano e le obbediscono. Il tempo passa, e malgrado la sua dieta rigorosissima a base di fave e orzo, Geneviève raggiunge i novant’anni. A Parigi il suo compito è sempre più quello di contemplare e intercedere, come illustrato nel dipinto di Puvis, di incantevole suggestione. In una città ancora di case basse e povere, con lo sfondo di una Senna volutamente ampliata per trasmettere il senso della pace e dell’infinito, sotto lo sguardo della luna, la Santa, con il lungo velo verginale, si affaccia al terrazzo della sua semplice e linda abitazione, e veglia orante su una Parigi addormentata, quasi se ne sentisse madre. Consacrata e impegnata sul piano civile, mistica e intraprendente, taumaturga spettacolare e consigliera apprezzata. Fiorisce spontaneo il paragone con Santa Caterina da Siena, non solo per il peso della sua azione e della sua personalità, ma ancora di più per la sua capacità di rinnovare il mistero dell’Incarnazione, di unificare cioè nella sua persona l’umano e il divino: sta qui, prima che nelle azioni vistose, la grandezza della santa parigina come quella della vergine senese. Una grandezza che richiama la particolare vocazione delle donne consacrate nell’Ordo Virginum: alle quali non chiederemo di fare gesti clamorosi e di fermare eserciti – cose che rispetto alla santità restano comunque un optional – ma semplicemente di camminare nelle nostre strade, immettendovi la forza misteriosa che viene dall’intima unione sponsale con Gesù, e di vigilare con trepido cuore di madri sulle nostre città addormentate. Proprio come faceva Geneviève.

Gennaio festeggia Geneviève, la santa parigina tanto antica e tanto attuale